Michele Scienza ha viaggiato per ben 800Km tra andata e ritorno per venire a trovarci e regalarci una girandola di emozioni!
La serata è cominciata con una foto de “I cipressi che a Bólgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar…”, che dominano ancora questo angolo incantato della Maremma livornese. Giosuè Carducci, che li descrisse nel 1874 attraversando i luoghi dell’infanzia, mai avrebbe potuto immaginare che un giorno il comune di Castagneto Carducci sarebbe diventato la dimora di oltre 1000 ettari di vigneti tra i più curati e pregiati d’Italia. Questa lussureggiante striscia di terra mediterranea a pochi Km dal mare, protetta alle spalle da boscose colline e composta di terreni leggeri, sassosi e talvolta sabbiosi, fu abitata e coltivata prima dagli Etruschi, poi dai Romani – che piantarono le pinete litoranee per impedire alle dune sabbiose di crescere bloccando il deflusso delle acque piovane – infine dai Longobardi. Con il medioevo e l’abbandono della cura del territorio, le dune crebbero e alle loro spalle si formarono estese paludi malariche. Dopo quasi mille anni di dominio della famiglia della Gherardesca, le prime bonifiche avvennero nel XVIII secolo. Infine a metà del ‘900, un intraprendente piemontese, il Marchese Mario Incisa della Rocchetta che aveva sposato la tosco-americana Clarice della Gherardesca, decise di mettere a frutto questo sterminato patrimonio da un la lato allevando cavalli da corsa tra i più pregiati al mondo (tra tutti il leggendario Ribot, “il cavallo del secolo”) ma anche re-inventandosi viticultore. Ruppe gli schemi di una stanca tradizione basata su vermentino e sangiovese piantando cabernet sauvignon e franc a pochi metri dai celebri cipressi, creando il primo grande Super Tuscan, il mitico Sassicaia. Dopo i primi esperimenti mal riusciti, come risulta dalla scherzosa corrispondenza con Luigi Veronelli, Mario Incisa sul finire degli anni ’60 trovò la formula magica: in degustazioni alla cieca questo vino surclassò i più antichi e blasonati cugini di Bordeaux, entrando in una dimensione mitica che dura ancora oggi. Questo successo stimolò una travolgente rinascita vitivinicola che coinvolse soprattutto famiglie venute da fuori zona: i Marchesi Antinori – i fratelli Piero (Guado al Tasso) e Lodovico (Ornellaia) – di origine fiorentina, il bergamasco Piermario Meletti Cavallari (Grattamacco), il varesino Michele Satta e numerosi altri. A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 il padre di Michele, Attilio Scienza, storico professore di viticultura dell’Università di Milano e scienziato di fama internazionale, fu il protagonista degli studi per la zonazione del Bolgheri che portarono alla definizione del disciplinare e poi alla nascita del Bolgheri DOC Rosso nel 1994: si studiarono il microclima ed i terreni e le giaciture di ciascuna sottozona, individuando dove i vari vitigni francesi potessero adattarsi al meglio. E dopo tanto studio… gli Scienza (nomen omen!) si innamorarono di questo paradiso, decisero di lasciare il natio Trentino (dove i cugini producono ancora i vini della tradizione trentina) e mettere nuove radici a Bolgheri: sul finire degli anni ’90 nasce Guado al Melo.
Michele, che oggi guida l’azienda, ci racconta tutto questo mentre sorseggiamo il primo vino della serata, il succoso Rosa al Melo 2013 Toscana IGT Rosato (sangiovese 80%, merlot, syrah) dalla deliziosa etichetta progettata dalla moglie di Michele, la signora Annalisa (alcune delle etichette sono arricchite da motivi tratti dall’arte etrusca). Vinificato e poi affinato per 3 mesi sempre in acciaio sui lieviti, è un fantastico vino per l’estate, per aperitivi o piatti di pesce, formaggi freschi (come il pecorino senese fresco con cui lo serviamo), salumi, carni bianche e tanto altro ancora. Di colore rosa caramella, al naso spiccano freschissime note di amarena e fragole, esaltate in bocca da freschezza, sapidità e la leggerezza di 12 gradi di alcool. Un bell’inizio.
Michele ci racconta del benedetto clima di Bolgheri, mitigato dalla vicinanza del mare ma anche caratterizzato da importanti escursioni termiche ed un’umidità superiore rispetto ad altre zone interne e più aride della Toscana, che favorisce la produzione di vini non troppo tannici e dotati di una spiccata eleganza olfattiva. Il resto è il risultato di un estremo rigore e rispetto per l’ambiente in vigna, e in cantina di un metodo artigianale che minimizza gli interventi chimici e fisici sul vino.
Mentre si versa il secondo vino, il Guado al Melo Bianco 2012 Toscana IGT Bianco (vermentino 80%, fiano, verdicchio, incrocio manzoni, petit manseng) si sente un oooohhhh in sala: il colore è giallo dorato intenso, ma la brillantezza fuori del comune testimonia la freschezza data da alcuni di questi vitigni. Vinificato e poi affinato in acciaio per 12 mesi sulla feccia fine, poi per altri 12 mesi in bottiglia, al naso è davvero complesso: prima mela e fiori bianchi, poi escono il miele d’acacia, la salvia e il rosmarino, infine una deliziosa mineralità. In bocca è lungo ed equilibrato tra calore (ben 14% di alcool), freschezza spiccata, morbidezza (già intuibile dalla consistenza nel bicchiere, piccoli contributi del Petit Manseng?), sapidità. Gran bianco per piatti di pesce saporiti, formaggi, carni bianche, noi lo abbiamo abbinato con un’insalata di pollo con pinoli, olive nere, sedano, scaglie di parmigiano e ovviamente olio extravergine toscano.
Eccoci al primo rosso, il vino più prodotto dall’azienda (circa 50000 delle 150000 bottiglie prodotte su 30 ettari di vigneti): l’Antillo 2013 Bolgheri DOC Rosso (sangiovese 70%, cabernet sauvignon, petit verdot). Vinificato in acciaio, riposa per 12 mesi in barrique (10% nuove) sulla feccia fine e almeno 3 mesi in bottiglia. Di colore rosso violaceo profondo, il naso è intenso e persistente di more appena raccolte, entusiasmante; in bocca è giustamente caldo (13%) e si sente ancora la firma “nervosa” del sangiovese per la freschezza e i tannini ricchi ma eleganti. Un “base” di grande stoffa da abbinare con salumi, carne, primi piatti saporiti, selvaggina, noi lo proviamo con la finocchiona toscana. Un sangiovese che non ha complessi di inferiorità rispetto ai blasonati vitigni bordolesi che dominano a Bolgheri. Una simpatica curiosità: Antillo non è il nome di un Dio etrusco o di un eroe di Erodoto (che ipotizzò un’origine degli Etruschi da migrazioni preistoriche di coloni dalla Lidia, sulla costa turca) ma… semplicemente il soprannome dato dai figli di Michele al nonno Attilio!
Segue il Rute 2012 Bolgheri DOC Rosso, paradigmatico uvaggio bordolese di Bolgheri: cabernet sauvignon 80%, merlot 20%. La tecnica di vinificazione è identica all’Antillo e simile la tonalità, ma completamente differente il carattere del vino. Analogamente all’Antillo, il legno non è chiaramente percepibile ma qui lo si intuisce nella raffinata speziatura che segue il primo impatto olfattivo fruttato (piccoli frutti dal profumo dolce e leggermente vegetale come il ribes, l’uva spina e il lampone) e vegetale (un filo di peperone dal Cabernet Sauvignon e di erbaceo dal Merlot). In bocca morbidezza, equilibrio e persistenza sono la firma di questi vitigni. Lo abbiniamo con un altro campione di persistenza, il prosciutto toscano, ma andrebbe benissimo con tutti i saporiti salumi toscani, sughi di carne, carni rosse e arrosti.
Ora la nostra serata si trasforma in un viaggio nel tempo e nello spazio. Michele ci racconta come – nonostante sopravviva la leggenda di una origine esclusivamente mediorientale della vite e del vino – la vite sia stata probabilmente addomesticata e usata come frutto in epoca preistorica in almeno una dozzina di zone intorno al bacino del Mediterraneo, alcune nel cuore dell’Europa, e poi le numerosissime varietà storiche si siano generate per impollinazione tra le varietà già coltivate in un luogo e quelle portate con se dall’itinerare di mercanti e migranti. Una volta scoperta forse per caso la vinificazione, in ogni luogo l’ebbrezza generata dal vino – sconosciuta in precedenza – ebbe un ruolo importante nello sviluppo della mistica e dei riti religiosi: il vino porta l’uomo in una dimensione particolare, che favorisce il contatto col divino in tutte le sue forme. Poi la digressione sulla tecnica viticola etrusca delle alberate (un tempo comune in tutta la penisola, e oggi ancora presente in alcune zone come ad Aversa in Campania) ci porta in volo… verso la Georgia! Essa è ancora praticata in questa terra di confine tra Europa e Asia, anzi appena a sud di questo confine, un luogo del quale si è innamorato Attilio in numerosi viaggi. Stretta tra le altissime e ghiacciate montagne del Caucaso e il tepore del Mar Nero, tra il mondo slavo a nord e l’Asia islamica a sud, la Georgia possiede un’ampia varietà di climi e una diversità biologica straordinaria. Il clima e l’isolamento hanno preservato in questa piccola nazione moltissimi antichi vitigni autoctoni introvabili altrove – molti di elevato valore enologico – e tradizioni vitivinicole che risalgono alla notte dei tempi: siamo quasi tentati di seppellire un’anfora di terracotta in giardino e versarci dentro il mosto della prossima vendemmia! J
Dalla collaborazione con le università georgiane nasce anche la collezione di vitigni caucasici che gli Scienza coltivano a Bolgheri (insieme a molti vitigni europei minori, per un totale di una trentina di varietà!) in un piccolo vigneto di un ettaro. Da questi vitigni, insieme con syrah, alicante e malvasia nera, e da circa tre vendemmie sfasate e vinificazioni separate (tutte in acciaio, poi affinamento per 24 mesi in barrique solo 10% nuove) nasce per assemblaggio il Jassarte 2011 Toscana IGT Rosso, che infine riposa almeno 12 mesi in bottiglia. Jassarte è il nome del fiume che per Erodoto segnava il confine tra Europa e Asia, oggi il Syr Daria che separa Kazakhstan a nord e Uzbekistan, quindi un simbolo di confine ma anche di commistione tra civiltà diverse. Rispetto ai due pregevoli rossi “base” (base si fa per dire) qui saliamo di un livello verso l’eccellenza: il colore è rosso rubino con riflessi granata, al naso è più complesso ed evoluto (ciliegia e prugne mature, quasi in confettura, spezie più marcate forse per la maggiore permanenza in barrique, note balsamiche), in bocca è pieno e persistente, caldo (13,5%) e fresco, vellutato e con un ritorno di persistenti note di frutta rossa matura. Da abbinare con zuppe, bolliti, pollame arrosto e grigliato, carni lesse e alla brace, piatti delicatamente speziati e formaggi stagionati, come il pecorino senese stagionato nella cenere con cui lo abbiamo servito.
Ed eccoci al gran finale, il vino top di Guado al Melo, un vero Bolgheri di razza che non teme di confrontarsi coi grandi vini di Bordeaux: l’Atis 2011 Bolgheri DOC Rosso Superiore (cabernet sauvignon 80%, cabernet franc, merlot), con la medesima tecnica di vinificazione del Jassarte, è simile al Rute ma amplificato in tutte le sensazioni, più concentrato e sofisticato. Il colore è rosso granato con riflessi aranciati, il naso elegante e complesso con spezie, frutti rossi, liquirizia e note balsamiche di menta, infine in bocca è caldo (14%), intenso, morbido, di grande struttura e persistenza. Da gustare da solo o con piatti di carne saporiti, primi piatti ricchi, selvaggina, formaggi invecchiati ed erborinati, noi lo abbiamo servito con crostino di cinta senese (il saporito patè di fegato di cinta senese e capperi) con pane nero.
Un grosso grazie a Michele Scienza per averci fatto conoscere attraverso i suoi splendidi vini in primis un magico angolo di Toscana, ma anche lo spirito di amore per la natura e la storia della civiltà che anima la sua famiglia e il suo lavoro.
Giorgio